spacer spacer
Home page        Il progetto        Parma Online        Come contribuire        Come contattarci
ARCHIVIO MOSTRE
Biblioteche del Comune di Parma uno sguardo oltre le mura
CERCA
 
Solo immagini
Solo testi
Foto e testi
 
LA BIBLIOTECA POPOLARE
LA CHIESA DI SAN ROCCO

Presentazione
Informazioni
Conferenze
Introduzione alla mostra
Gli anni del Littorio
I giorni neri. Parma 1943-1945
Gli anni di Picelli in Unione Sovietica
L'economia parmense nel ventennio
Il salvadanaio di grandi e piccini
La Chiesa di Parma
Le trasformazioni urbane (1927-1945)
Le arti figurative
La vita musicale
La vita letteraria
La fascistizzazione dello sport
I periodici
Quaderno didattico
Credits
Storia di ieri: Gli anni del Littorio. Il regime fascista a Parma: 1926-1943 [ versione stampabile ]

di Fiorenzo Sicuri

A Parma, nel 1926, il Partito Nazionale Fascista (PNF), il partito unico che nello statuto del 1932 si autodefinirà come «milizia civile, agli ordini del Duce, al servizio dello Stato fascista», ha 53 fasci in cui si raccolgono 10.647 iscritti. A essi sono da aggiungere gli iscritti alle organizzazioni giovanili dell’Opera Nazionale Balilla (Piccole Italiane e Giovani Italiane, Balilla e Avanguardisti) e all’Opera Nazionale Dopolavoro (1), organizzazioni delle quali abbiamo frammentarie e non del tutto convincenti cifre, oltre ad associazioni minori. 

E' da notare che, in quell’anno, Parma è la federazione con il maggior numero d’iscritti rispetto alle altre federazioni dell’intera Emilia-Romagna: 647 iscritti più della Bologna di Leandro Arpinati, 297 più della Ferrara di Italo Balbo, la seconda federazione emiliana
(2). Un primato che, peraltro, non durerà un granché. Nell’ottobre 1940, pochi mesi dopo l’ingresso in guerra dell’Italia, lo stato organizzativo della federazione fascista, che nel frattempo aveva allargato e articolato i suoi assetti organizzativi, era riassunto in un’importante scheda statistica, la più ampia e affidabile da noi rinvenuta (3). Nei 51 comuni della provincia di Parma, il PNF aveva 68 Fasci di Combattimento, 34 settori e 91 nuclei (4): il Fascio cittadino era inoltre articolato in quattro gruppi rionali, denominati rispettivamente “Walter Branchi”, “Ungherini – Robuschi” (all’inizio della guerra erano stati riuniti in uno solo i due preesistenti gruppi rionali “Walter Ungherini” e “Amedeo Robuschi”), “Silvio Vaga” e “Filippo Corridoni”.

Erano iscritti al PNF 32.710 uomini, di cui 1.155 avevano ricevuto la qualifica e il riconoscimento di squadrista. Le donne dei Fasci Femminili erano 6.890; nell’associazione delle massaie rurali si raccoglievano 18.762 iscritte; le Sezioni operaie e lavoranti a domicilio (SOLD) 2.975. Gli universitari fascisti del Gruppo Universitario Fascista (GUF) “Arnaldo Mussolini” erano 1.136. Gli iscritti al Dopolavoro raggiungevano i 27.463. Tutto ciò, per quanto riguardava gli adulti, costituiva un complesso di 89.936 iscritti.

Fra i giovani, inquadrati nella Gioventù Italiana del Littorio (GIL), i Giovani Fascisti erano 18.614; gli Avanguardisti 13.786; i Balilla 18.616; le Giovani Fasciste 3.953; le Giovani Italiane 4.390; le Piccole Italiane 17.970; 13.840 fra Figli e Figlie della Lupa. Nella GIL, complessivamente, vi erano 91.169 iscritti. Sicché, nel 1940, fra iscritti al PNF e alle organizzazioni collaterali del fascismo, 181.105 parmigiani su 383.683 abitanti della provincia erano inquadrati nel regime fascista. Quasi un parmigiano su due, all’incirca la media nazionale. Per non dire dei sindacati fascisti, che nel ventennio hanno uno sviluppo enorme in termini d’iscrizioni e che hanno una complessa e articolata struttura, anch’essa ramificata in quasi tutti i comuni della provincia. Secondo la Guida Commerciale di Parma e Provincia del 1926-27 (5), la Federazione Parmense delle Corporazioni Sindacali fasciste ha 19 corporazioni, che sono perlopiù suddivise in un certo numero di sindacati. È articolata nella provincia con sezioni sindacali in 44 comuni su 50 (i sei che non l’hanno ancora sono nell’alta montagna) e, in un certo numero di sezioni sindacali comunali, ha sottosezioni nelle frazioni. Nel complesso, in quell’anno i sindacati hanno 32.000 iscritti, di cui 28.000 uomini e 4.000 donne. Nel 1940, invece, l’Unione Lavoratori Agricoli ha 51.670 iscritti; l’Unione Lavoratori Industria 20.960 aderenti; l’Unione Lavoratori Commercio 7.296 e altre minori unioni 1.032. Una somma di 80.958 iscritti, cui sono da aggiungersi le unioni del padronato e del lavoro autonomo (commercianti e artigiani), anch’esse con cifre rilevanti, anche se ovviamente minori (6). Tutte le cifre del fascismo hanno qualcosa di gigantesco, per l’epoca. In un regime totalitario come quello fascista erano però adesioni spontanee e convinte o erano, invece, in qualche modo obbligatorie?

La risposta è, in questo caso, articolata. Consideriamo il caso dei Balilla. Soltanto nel 1939 sarà resa obbligatoria per legge l’iscrizione dei ragazzi. Tuttavia, già prima, strumenti di pressione di varia natura (il reclutamento dei “balilla” è affidato ai presidi, ai direttori didattici e ai maestri) e vantaggi non secondari che si ottengono con l’iscrizione (per non fare che un esempio: per accedere alle colonie marine e montane occorre essere iscritti all’ONB) mostrano che l’adesione, se non proprio obbligatoria, è quantomeno quasi obbligata per molte famiglie. Così pure il Gruppo Universitario Fascista: anche in questo caso, la tessera per gli studenti universitari sarà resa obbligatoria soltanto nel 1939, ma senza l’iscrizione al GUF uno studente universitario non può accedere alla mensa, all’ambulatorio, alle Case dello studente e ad altri servizi assistenziali. Diverso è il caso del partito, dei fasci maschili e femminili: per buona parte le iscrizioni sono libere e anzi il partito a più riprese cercherà di limitare le nuove iscrizioni, riservandole perlopiù ai membri delle organizzazioni giovanili (la cosiddetta “leva fascista”) e diverse volte promosse anche epurazioni al proprio interno. Soltanto per una quota ridotta si può parlare di iscrizioni in qualche modo obbligatorie, com’è il caso di coloro che intendono accedere a concorsi per l’impiego pubblico ovvero il caso di varie categorie di dipendenti pubblici secondo la normativa degli anni Trenta. Naturalmente, anche qui i vantaggi dell’iscrizione sono di per sé notevoli: va da sé che, in un regime totalitario, l’iscritto al partito unico è un cittadino di serie superiore e, ancor di più, se ottiene il brevetto di squadrista, quello della “Marcia su Roma” oppure la cosiddetta “sciarpa littorio”, brevetti che fra l’altro, per i lavoratori dipendenti, danno diritto anche a una modesta maggiorazione di stipendio. Ma, come in ogni partito, anche nel PNF idealità e interessi s’intrecciano, sicché sarebbe fuor di luogo attribuire l’elevato numero di aderenti esclusivamente o soprattutto a meri calcoli opportunistici.

Comunque, di fronte a tali cifre, non è chi non veda che una certa immagine di Parma refrattaria al fascismo o quantomeno tiepida nei suoi confronti, che è stata una rappresentazione consolidata nella tradizione orale e scritta dell’antifascismo e della storiografia locale, ne esce quantomeno appannata, se non demolita. La storiografia locale, peraltro, non ha sinora approfondito, e pour cause, la storia del regime fascista parmense e, a parte la storia della Chiesa e dell’Azione Cattolica, si dispone soltanto di una ristretta e parziale bibliografia sul tema, in alcuni casi piuttosto discutibile. Al contrario, l’antifascismo militante, la repressione del dissenso e il controllo politico propri di un regime totalitario sono i fenomeni che, sul piano locale, sinora hanno maggiormente attratto l’attenzione degli studi, così come la discriminazione e poi la persecuzione della piccola comunità ebraica provinciale, cominciata con le leggi razziali del 1938.

E tuttavia tali fenomeni, pur ricchi di implicazioni di valore etico e politico, coinvolgono, complessivamente e a diversi gradi, all’incirca 4.000 persone
(7); rimane dunque da documentare (sia detto in maniera grossolana) ciò che avveniva alla restante parte della popolazione, cioè la storia di circa 380.000 abitanti. Inoltre, il regime è durato un ventennio ed è difficile credere, a semplice colpo d’occhio, che nel ventennio non sia capitato nulla, se non di marginale, e che siano stati anni di mediocre tran-tran e di noiosa stagnazione della provincia e della città; una rappresentazione che era usuale sino a non molti anni fa, e per certi versi sino ad oggi.

La nostra tesi, invece, è semplice, ovvia e persino banale (ma talvolta non è male affermare ciò che è ovvio): Parma fu sostanzialmente fascista tanto quanto le altre province emiliane e della Valle Padana (se non più…). Vale a dire: Parma fu fascista tanto quanto le province di maggiore insediamento del fascismo, tanto quanto una buona parte del suo cuore. Inoltre, un regime totalitario, sia pure imperfetto o incompiuto, secondo la valutazione di alcuni storici, oppure, se si preferisce, un regime autoritario tendente al totalitarismo incise profondamente sulle strutture economiche, sociali e culturali e sulle istituzioni della provincia e svolse un’opera di modernizzazione, i cui esiti si possono valutare negativamente in blocco, per ragioni ideologiche o ideali.

Di fatto, però, sono rimasti a lungo visibili e in parte sono ancora oggi visibili nella conformazione urbanistica e nelle dotazioni infrastrutturali del Parmense, nelle istituzioni locali e nei lasciti delle politiche sociali e assistenziali. Che si tratti poi di una modernizzazione, su scala nazionale e dunque anche locale, nell’ambito della «modernità totalitaria», come sostiene Emilio Gentile, forse oggi il più importante storico italiano del fascismo, oppure di una «modernizzazione conservatrice », come sostengono altri studiosi, è materia ancora di approfondimento, sebbene la seconda tesi, pur retoricamente suggestiva, sembri cadere nella fattispecie di ciò che i logici medievali definivano una contradictio in terminis.

Tutto ciò ha avuto un prezzo assai elevato, com’è noto: la perdita della democrazia e della libertà, causa di un danno difficilmente quantificabile in termini empirici. Ma questo è già un giudizio di valore, che non può esimerci dal lavoro propriamente storiografico, che consiste essenzialmente nel tentativo di comprendere e spiegare il passato, ricostruendone le strutture e gli avvenimenti.

Gli anni del regime ci propongono una Parma piuttosto diversa dall’immagine tradizionale o convenzionale. Oltre agli ampliamenti del territorio provinciale (che acquisisce da Piacenza il omune di Bardi e, in parte, di Boccolo dei Tassi), sono anni di inurbamento nel capoluogo sino alla metà degli anni Trenta, sebbene il regime cominci a prendere provvedimenti contro questo fenomeno (peraltro non del tutto efficaci) già a partire dal 1928. Nel 1911 il comune di Parma ha 50.725 residenti; nel 1921 ne ha 56.685 e nel 1931 si arriva a 68.713, con una crescita decennale del 21,2%, quasi il doppio della crescita del precedente decennio 1911-1921. Nel 1936 si contano 71.858 residenti con una crescita del 4,6% sul 1931 (che attesta un rallentamento nello sviluppo demografico della città), mentre non si possiedono dati ufficiali e assodati per il 1941, sebbene una stima e un calcolo approssimativi degli inizi del 1943 affermino la presenza di 82.738 cittadini in quell’anno, con una crescita del 15,1% sul 1936
(8). Dal punto di vista economico, inoltre, il ventennio, superata la crisi scatenata dalla “quota 90” e dalla “grande crisi” del 1929, rafforzerà la posizione dell’industria agroalimentare, ormai un pilastro dell’economia parmense, insieme a un’agricoltura considerevolmente ammodernata.

In un contesto di massiccia propensione del fascismo all’esaltazione della ruralità, l’agricoltura parmense sarà un vanto del regime, a cominciare dalla “Battaglia del grano” iniziata nel 1925 e culminata nel conferimento della “Spiga d’oro” alla provincia nel 1941, occasione per la più importante visita di Mussolini a Parma.

Gli anni del fascismo cambiarono radicalmente il governo e gli assetti delle istituzioni locali. Nei comuni i sindaci, le giunte e i consigli comunali elettivi sono sostituiti dal podestà e dal vice-podestà affiancati, nel comune maggiore obbligatoriamente e nei comuni minori facoltativamente, dalla consulta comunale, un organismo di non grande valore; tutti erano nominati dall’alto, dal ministero o dal prefetto. La stessa logica vale per l’amministrazione provinciale: anch’essi non eletti e anch’essi nominati dall’alto, il preside e il vice-preside, il rettorato coi rettori ordinari e supplenti si sostituiscono al presidente, alla deputazione provinciale e ai consiglieri provinciali. In più, nei comuni e nell’amministrazione provinciale, i segretari generali cambiano status, passando da dipendenti degli enti locali a dipendenti statali e assumendo un potere notevole, tanto da poter essere considerati la longa manus del Ministero degli Interni nell’ambito delle amministrazioni locali; ciò accrebbe in modo consistente il controllo centralistico dello stato sulle due istituzioni e ne limitò ulteriormente l’autonomia.

A ciò si aggiungano le nuove istituzioni locali che il regime portò: la sede di Parma dell’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale (INFPS); i comitati comunali dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (ONMI); il Patronato nazionale per l’assistenza sociale; l’Unione Fascista Famiglie Numerose; l’Ente Opere Assistenziali (EOA), poi dal 1937 Ente Comunale di Assistenza (ECA); l’Ufficio Unico di Collocamento; l’Istituto Fascista Autonomo per le Case Popolari; l’Ente provinciale per il Turismo, istituito nel 1936, con associazioni turistiche diramate in numerosi comuni della provincia (nel 1938 diciotto comuni hanno una pro-loco, a cui si aggiunge la Pro Val Parma, che raccoglie quattro comuni della valle, per un complesso di ventidue comuni: tutte le proloco sono riconosciute dal Ministero della Cultura Popolare); le colonie climatiche montane e marine, che si aggiungono alle preesistenti colonie elioterapiche; il Consorzio Unico per la Bonif ca della Bassa Parmense; il Consorzio Idraulico di difesa del torrente Parma. E l’elenco non è affatto completo. In altri casi, istituzioni precedenti passarono, ammodernate, sotto la gestione delle organizzazioni del regime: così, ad esempio, il Consiglio provinciale delle corporazioni è la trasformazione della antecedente Camera di Commercio; i bagni pubblici cittadini furono amministrati dall’Opera Nazionale Dopolavoro, un Dopolavoro (sia detto per inciso) che nell’insieme era una struttura notevole, perché aveva una diramazione capillare in molti comuni della provincia. Inoltre vi sono le organizzazioni collegate col PNF, che svolgono comunque un’attività pubblica: a parte il massiccio proliferare di associazioni sportive comunali e provinciali, basti ricordare i ricreatori giovanili della GIL che si affiancano ai ricreatori religiosi dei Salesiani e degli Stimmatini; l’Istituto di Cultura Fascista; l’Istituto Coloniale fascista e così via.

E che cosa fanno tutte queste istituzioni? Lavori pubblici e politiche sociali e assistenziali sembrano le priorità, ma un certo impegno viene dedicato al turismo (di cui furono segno emblematico i “treni popolari”, oltre al fiorire delle pro-loco), alla cultura (per fare un solo esempio: la grande mostra del Correggio del 1935 e le celebrazioni, sia pure in tono minore, del Parmigianino, di Giambattista Bodoni e di Niccolò Paganini nel 1940) e notevoli sforzi sono dedicati allo sport.

Proviamo a elencare le maggiori opere urbanistiche e infrastrutturali del fascismo: lo sventramento e il rifacimento di larga parte dell’Oltretorrente (il più importante quartiere popolare della città) è il più noto, ma vedono la luce anche ponti, fori boari e macelli pubblici, cimiteri, acquedotti, strade provinciali e comunali, case economiche per i lavoratori, dispensari antitubercolari, ricoveri dei vecchi e di mendicità, ospedali e stabilimenti di cura termale, scuole e asili infantili, teatri, stadi, campi sportivi e palestre, padiglioni fieristici, caserme e sedi municipali o di istituzioni pubbliche o para-pubbliche, oltre a opere idrauliche e di bonifica
(9). Notevole è anche la cura per le sedi del partito e delle organizzazioni collaterali, spesso costruite ex novo (come è il caso degli edifici della GIL, della Casa del Balilla e del Dopolavoro), oppure ricavate dalla profonda ristrutturazione di fabbricati preesistenti, come il Palazzo del Governatore nella piazza principale della città, che diviene la sede della federazione del PNF con il nuovo nome di Palazzo della Rivoluzione, o di Palazzo Rangoni, sede della Milizia. Questo è anche il caso delle diverse Casa Littoria o Casa del Fascio (un nome che evoca le Case del Popolo socialiste): la prima delle quali fu insediata in città già nel 1923-1924, e poi a Felino (1933), Vigatto (1936), Fidenza e Busseto (1937), Calestano e Cortile San Martino (1938), Basilicanova, Noceto e San Pancrazio Parmense (1939), Neviano Arduini (1940) e nel 1939-1940 se ne cominciò la costruzione a Sorbolo e in altri comuni.

D’altra parte sappiamo che, sin dal tempo dei tiranni dell’antica Grecia, le dittature prediligono le opere e i lavori pubblici. Rappresentano una convergenza d’interessi, e non soltanto hanno importante funzione economica e sociale, ma mantengono o accrescono il consenso: le imprese che vincono gli appalti, gli operai che vi lavoravano e di cui viene alleviata l’endemica disoccupazione, i ceti medi (in particolare artigiani, tecnici e commercianti) che anch’essi beneficiano direttamente o indirettamente dell’opera pubblica. E si aggiunga, da non sottovalutare, l’immagine di un’amministrazione potente, fattiva e operosa, preoccupata di rispondere velocemente alle esigenze dei cittadini o addirittura di anticiparle, senza che le lungaggini del processo decisionale democratico o le sue estenuanti mediazioni intralcino l’inizio, lo sviluppo e la conclusione dei lavori.

Il fascismo realizzerà anche un monopolio dell’informazione provinciale. Col 1928 esisterà un solo giornale nella provincia, il «Corriere Emiliano», di proprietà del PNF, una volta chiusa la «Gazzetta di Parma». Il vecchio giornale liberale sopravviverà poco alla morte del proprietario e direttore Gontrano Molossi, avvenuta nel 1927; due esponenti dell’Associazione Combattenti, Priamo Brunazzi e Leonida Fietta, tennero l’incarico di direzione dal 1927 al 1928 per volontà del Molossi in punto di morte, sino a quando il PNF acquisterà la testata e ne userà inizialmente il nome come sopratitolo del «Corriere Emiliano» e, dal 1937, come titolo di una pagina dedicata alle cronache cittadine, salvo ripristinare nell’ottobre 1941, in coincidenza con la visita di Mussolini, la vecchia e storica testata.

Alla direzione del «Corriere Emiliano» si alterneranno Pietro Solari (1925-1926); Piero Saporiti (1926); Raul Forti (1926-1927); Luigi Passerini (1927-1931); Stanis Ruinas (1931-1932); Guido Gamberini (1932-1936); Giorgio Rosso (1937-1940); Silvio Maurano (1940-941); Corrado Rocchi (1941-1943, quando già il giornale aveva ripreso la vecchia testata di «Gazzetta di Parma») e alcuni redattori-capo nell’interregno fra l’uno e l’altro direttore. Con l’eccezione di Passerini, gli altri direttori non sono parmensi: provengono dal giornalismo fascista, nazionale o provinciale.

Qualche raro periodico di carattere politico, pur fascista, come gli organi del movimento nazionalista della “Guardia al Brennero” (la «Guardia al Brennero» e poi «La Fiamma»), che non sopravviveranno a lungo, e gli organi sindacali di categoria o del GUF non inficiano l’importanza di questo fatto, cioè la posizione monopolistica del giornale della federazione del PNF, che è strumento decisivo per la formazione dell’opinione pubblica provinciale. Fuori dal coro, ma rendendo talvolta (o, in taluni casi, più che talvolta) omaggio alla canzone in voga, rimangono i periodici religiosi delle diocesi e rimane la «Giovane Montagna», lo storico periodico d’ispirazione cattolica fondato da Giuseppe Micheli nel 1900, che aveva promosso e accompagnato la nascita del movimento politico dei cattolici nel Parmense e che è riuscito a sopravvivere durante il fascismo come “rivista mensile di studi montanari e dialettali”; periodici che peraltro non entrano, per ovvi motivi, in temi o problemi politici, se non raramente.

Qual è l’élite del potere nella provincia? Innanzitutto è costituita dal prefetto e dal segretario della Federazione del PNF, le due massime cariche del regime.

I prefetti che si succedettero furono Nicola Spadavecchia (luglio 1925 – maggio 1926); Eolo Rebua (maggio 1926 – maggio 1931); Canuto Rizzati (maggio 1931 – settembre 1934); Sebastiano Sacchetti (settembre 1934 – settembre 1942); Luigi Passerini (settembre 1942 – settembre 1943); Giuseppe Zingale (settembre 1943). In particolare i prefetti di più lunga permanenza, come Rebua, Rizzati e soprattutto Sacchetti, ebbero una vasta infl uenza sugli affari della provincia. La figura del prefetto, già importante nell’Italia liberale, viene ulteriormente rafforzata nel centralismo fascista, come emanazione e custode dello Stato, che è insieme uno Stato “nazionale”, “totalitario” e soprattutto “fascista”. E inoltre si tenga presente che non erano soltanto “prefetti fascisti” in senso generico, com’era uso all’epoca definirli, ma diversi erano iscritti al partito e almeno uno, Passerini, non proveniva dalla “carriera”, ma direttamente dal PNF.

I rapporti fra le due cariche, prefetto e segretario, non sono sempre idilliaci; un conflitto, ora latente ora aperto, si apre talvolta fra i due sino a quando, nel 1927, il regime non darà la netta prevalenza al prefetto, per marcare la superiorità dello Stato sul Partito, e la cosa non sembra sia stata accettata pacificamente, perché tensioni e contrasti continueranno.

Nella carica di segretario di federazione, a parte Renato Ricci, che resterà commissario straordinario dal dicembre 1925 all’aprile 1926, si susseguirono Raul Forti (aprile 1926 – settembre 1927); Remo Ranieri (settembre 1927 – aprile 1929); Virginio Pizzi (aprile 1929 – agosto 1932); Fortunato (Nino) Vicari (agosto 1932 – ottobre 1933); Comingio Valdrè (ottobre 1933 – gennaio 1939); Filippo Magawly (gennaio 1939 – gennaio 1940); Franco Bogazzi (gennaio 1940 – gennaio 1941); Vittorino Ortalli (gennaio 1941 – luglio 1942); Mario Macola (luglio 1942 – giugno 1943); Antonio Valli (dal 24 giugno 1943).

Si tratta di segretari nominati dall’alto (l’unico eletto fu Forti, sia pure nei consueti modi plebiscitari del fascismo) e un certo numero di essi non erano parmensi: oltre a Ricci, non lo erano Forti, Vicari, Bogazzi, Macola e Valli. A parte gli anni di guerra, in cui si tratta di rotazioni dovute agli eccezionali avvenimenti che l’Italia vive, negli altri casi i federali estranei a Parma arrivano quando lotte di fazioni o personalismi impediscono la scelta di un parmense, inviati da altre province e provenienti dalla burocrazia di partito. Come si vede, la permanenza in carica di un federale non è lunga: escludendo dal calcolo l’atipica lunghezza della segreteria di Comingio Valdrè e il caso a sé di Antonio Valli, segretario per alcune settimane prima del crollo del regime, durano mediamente un anno e mezzo circa. Il segretario federale (o, semplicemente, “il federale”) ha un potere notevole, anche per l’alta concentrazione di cariche che detiene, concentrazione perlopiù fissata dallo statuto del partito.

Per esemplificare, prendiamo il caso di Comingio Valdrè (il «ducino», come lo chiamava confidenzialmente il suo entourage), seguendo l’edizione del 1938 della ricca Guida Commerciale di Parma e Provincia che, durante il regime, veniva stampata a cadenze diverse dal più importante tipografo cittadino dell’epoca, Mario Fresching, un socialista, poi interventista nel 1914-1915 e infine fra i fondatori del fascio di Parma nel 1919
(10). Valdrè era nello stesso tempo segretario federale, segretario del fascio di Parma, comandante federale della GIL, presidente dell’OND provinciale, presidente del Comitato Colonie Marine e Montane, membro del Consiglio Provinciale delle Corporazioni e del Consiglio Provinciale sanitario, nonché presidente dell’Ente Opere Assistenziali e dell’Ufficio Unico di Collocamento. Accumula insomma cariche di partito e cariche nelle organizzazioni dipendenti dal partito, cariche in organismi assistenziali e cariche in istituzioni pubbliche. Con qualche variazione in più o in meno, anche gli altri segretari rivestirono sostanzialmente un’identica concentrazione di cariche.

La classe dirigente fascista parmense, di cui il segretario federale è la massima espressione, non godette peraltro di elevata considerazione su scala nazionale: nessun parmense fece parte del Gran Consiglio del fascismo o dei governi Mussolini. La più alta carica nazionale del PNF fu raggiunta da Remo Ranieri, che rimase nel Direttorio nazionale dal dicembre 1931 al dicembre 1932, per poi divenirne ispettore, mentre diversi segretari federali o il podestà di Parma, Mario Mantovani, divennero membri del Consiglio Nazionale del PNF, un organismo che rappresentava soprattutto il fascismo delle province e, nella sua vastità, poco rilevante. Così pure, soltanto Mario Racheli, parmense di origine ma in realtà apolide, già segretario della Camera del Lavoro sindacalista di Parma negli anni Venti, fu segretario di una confederazione sindacale nazionale: la Confederazione Nazionale Fascista del commercio dal 1933 al 1938, mentre Gino Chiari, un industriale, divenne presidente di una federazione nazionale della confederazione degli industriali. Nessun parmense fu presidente di una federazione sindacale dei lavoratori e pochi (come Guido Marasini, lo stesso Chiari) divennero invece consiglieri nazionali dei vari sindacati dei datori di lavoro; infine uno, Comingio Valdrè, della corporazione dell’abbigliamento.

Qualche parmense entrò nel parlamento nazionale. Nel 1924, in occasione delle ultime elezioni relativamente libere con un sistema politico pluripartitico, il fascismo locale aveva eletto due parmensi nella Camera dei Deputati, Remo Ranieri e Ugo Gabbi. Nel 1929, alle prime elezioni a partito unico, nel collegio unico nazionale saranno eletti, per Parma, Remo Ranieri, Antonio Bigliardi e Mario Racheli; nel 1934, alle seconde e ultime elezioni a partito unico, fu eletto soltanto Mario Mantovani. La successiva Camera dei Fasci e delle Corporazioni era un organismo non eletto, ma composto per funzioni: ne facevano parte il Gran Consiglio, il Consiglio nazionale e il Direttorio Nazionale del PNF, i segretari federali, gli ispettori nazionali del partito oppure i membri dei consigli nazionali delle varie corporazioni e alcune altre minori cariche. Nel 1939, anno di creazione della Camera dei Fasci, i parmensi che ne fecero parte furono: Davide Fossa e Comingio Valdrè, ispettori nazionali del partito; Filippo Magawly, segretario federale; Guido Marasini, Alcide Aimi, Gino Chiari, Mario Racheli, Fernando Campagnoli, Pietro Ferretti di Castelferretti, Ottone Terzi, esponenti dei consigli nazionali di varie corporazioni
(11).

Subordinati al federale stanno i rimanenti “gerarchi”: i membri del Direttorio federale, il segretario amministrativo, gli ispettori federali e così via, scendendo per i rami dell’organizzazione sino alle zone, ai fasci locali, ai gruppi rionali, ai settori, ai nuclei e alle organizzazioni femminili e giovanili. Come fissato nello statuto nazionale emanato nell’ottobre 1926, nel PNF tutte le nomine procedono dall’alto al basso: il segretario nazionale nomina il segretario federale; il segretario federale nomina il direttorio provinciale, salvo ratifica del segretario nazionale, e i segretari dei fasci comunali o locali; a loro volta, i segretari dei fasci nominano il direttorio dei rispettivi fasci, salvo ratifica del segretario federale. Questo, in sintesi, il meccanismo delle nomine nel partito.

Quando cambia il segretario federale (il “cambio della guardia”), di norma cambia buona parte dei gruppi dirigenti. Il PNF è un “partito-milizia” composto da fedeli a un capo e dal vertice della piramide si scende verso la base: soltanto durante la Repubblica Sociale Italiana verrà reintegrato il principio di elettività nelle cariche del partito.

Nella élite fascista locale giocano poi un ruolo di rilievo il podestà di Parma (Mario Mantovani, dal 1926 al 1939, e Pietro Pariset, dal 1939 al 1943), una carica che tende a limitare il potere del segretario federale, e i podestà dei più importanti comuni, pur con minor peso. Per qualche anno anche il segretario della confederazione dei sindacati dei lavoratori, ove si raccoglie perlopiù la sinistra fascista, avrà un ascendente rilevante ma nel 1928 il cosiddetto “sbloccamento”, che fraziona la confederazione sindacale fascista in sette federazioni autonome, fa sì che ciascun segretario dei vari sindacati, così suddivisi, conti meno. Tuttavia, i segretari dei sindacati maggiori per numero d’iscritti o per rappresentanza sociale, come il segretario dei lavoratori dell’agricoltura, ha comunque un’importanza di rilievo, per ragioni obiettive. Né è del tutto da trascurare l’importanza del fiduciario del GUF, che di norma fa parte dei direttori provinciali, o della fiduciaria dei fasci femminili o del presidente dell’ONB: se non altro per ragioni che attengono ai simboli fondamentali del fascismo, fanno anch’essi parte della élite.

Ha poi la sua parte anche la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN). Articolata nella 80a Legione “Alessandro Farnese”, con sede a Parma, la più importante, e nella 74a Legione Taro, con sede a Fidenza, già Borgo San Donnino (il fascismo cambiò il nome antico della seconda cittadina della provincia), nella Coorte Autonoma Universitaria “Augusta” e nei distaccamenti della Milizia Forestale e della Milizia della Strada, nel 1928 conta 3.810 militi e 7.609 nel 1940 (12). La MVSN è la “guardia armata della rivoluzione fascista”, ma ha anche compiti di polizia politica e altri minori, e il console o il seniore comandante la Legione Farnese, di regola, è membro dei direttori federali.

Infine contano naturalmente i gruppi imprenditoriali più rilevanti, che già di per sé sono infl uenti in una società capitalistica e che il fascismo pone in ulteriore rilievo, mantenendo unita la Confederazione fascista degli Industriali e non “sbloccandola”, a differenza dei sindacati dei lavoratori.

È così totalitario il potere del fascismo o ha dei limiti? A parte la monarchia, che comunque deve essere tenuta in conto dal regime su scala nazionale e di rifl esso su scala locale, un potere che certamente lo limita anche su scala provinciale è quello della Chiesa cattolica. La potenza della Chiesa e l’infl uenza dei vescovi, che si succedono alla guida delle diocesi che insistono sulla provincia, è palpabile durante il regime fascista: si può anzi sostenere la tesi di una maggiore infl uenza della Chiesa nella società locale rispetto all’epoca liberale. Basta guardare i giornali locali: se fino al 1924-1925 le loro pagine ospitavano raramente notizie riguardanti gli affari ecclesiastici, col regime la Chiesa iniziò a essere trattata in ben altro modo. Le cerimonie pubbliche o di partito videro spesso la presenza di prelati o vescovi, e in posizioni di rilievo; le iniziative delle diocesi furono riportate e valorizzate nei periodici fascisti.

Con il Concordato del 1929, che stabilisce nel complesso buoni rapporti fra il Vaticano e il fascismo, anche la Chiesa parmense, particolarmente con Evasio Colli, accetta tranquillamente (per non dire appoggia) il regime, ma intende tuttavia mantenersi autonoma. Ciò non sembri una ovvietà o contraddizione e, per spiegare, facciamo il caso del più importante confl itto fra Chiesa e Stato di quel periodo: lo scioglimento dei circoli di Azione Cattolica nel 1931, che furono successivamente ricostituiti, una volta cessato il confl itto. A Parma, nel maggio 1931 furono sciolti 153 circoli giovanili maschili con 2.117 iscritti e 86 circoli giovanili femminili con 2.901 iscritte
(13), e in alcuni casi vi fu una ripresa dello squadrismo nei confronti di dirigenti e militanti dell’associazione stessa, con vari incidenti. Nel luglio 1931 fu messa in atto una vasta indagine di polizia sui circoli cattolici in generale, controllando quanti iscritti a tali circoli avessero contemporaneamente aderito a organizzazioni fasciste. Alla fine, escludendo dal conteggio i circoli della città perché nell’indagine non vi sono per essi dati omogenei con la restante parte della provincia, su 4.761 iscritti delle 170 associazioni cattoliche (gruppi parrocchiali, circoli giovanili e di adulti, società di mutuo soccorso e così via), soltanto 174 sono iscritti anche al PNF e 36 alla MVSN. Duecentodieci iscritti ad associazioni cattoliche, nei comuni extracittadini, risultarono insomma aderenti a una qualche organizzazione del regime: il 4,4% dell’universo degli iscritti (14). Che è come dire: nelle manifestazioni pubbliche le autorità ecclesiastiche possono benedire insegne ed emblemi fascisti o comunque rendere omaggio al regime ma, all’interno della Chiesa, in generale, gli adepti più fedeli si mantengono non partecipi al regime. Il che non significa che essi siano contrari o critici ma, appunto, sostanzialmente estranei, pur rendendo a Cesare ciò che è di Cesare.

Certamente non è impossibile che negli anni successivi al 1931 le cose siano cambiate e che vi siano state più consistenti adesioni alle organizzazioni del regime; non disponiamo però di analoghe inchieste, che permettano un confronto utile a comprendere se vi fu una evoluzione successiva. E il giudizio sui rapporti fra cattolici e fascismo è diverso, naturalmente, se si guarda non agli iscritti alle associazioni o ai militanti più attivi, ma al popolo dei semplici credenti, che segue il generale atteggiamento degli italiani.

Il regime fascista, sin dagli inizi, ha nei suoi cromosomi la valorizzazione della guerra. Innanzitutto commemora ogni anno con vaste manifestazioni la partecipazione dell’Italia alla Prima Guerra Mondiale, ricordando l’anniversario dell’entrata in guerra e della vittoria. Inoltre a Parma commemora annualmente le più importanti battaglie in cui furono implicati soprattutto dei parmensi, come Cima Palone e Passo Buole. Sempre annualmente, ricorda ovviamente la marcia su Roma (28 ottobre), la fondazione dei fasci di combattimento (23 marzo), il Natale di Roma (21 aprile) che ha sostituito, come festa del lavoro, il tradizionale Primo maggio, e dal 1927 si tiene il rito della “leva fascista”. Quando sarà proclamato l’impero, nel maggio 1936, il regime comincerà inoltre le commemorazioni al riguardo, mentre costituisce una particolarità del fascismo parmense l’annuale di Filippo Corridoni.

Il fascismo continua la costruzione di monumenti dedicati alla memoria della Grande Guerra, portandone a compimento alcuni fra i più rilevanti (il monumento a Filippo Corridoni nel 1927 e alla Vittoria nel 1931) e aggiungendone altri alla fitta trama di monumenti di questo tipo che si era venuta creando negli anni Venti. Infine, valorizza con enfasi le associazioni dei combattenti, cominciando dalle maggiori, l’Associazione Nazionale Combattenti e l’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra, che eredita e potenzia, per finire con le associazioni d’arma, anch’esse in parte nate negli anni Venti e in parte create a regime imperante. Così, nella Guida Commerciale di Parma e Provincia del 1938, si può constatare l’esistenza a Parma di sezioni dell’Unione Nazionale Ufficiali in congedo, dell’Associazione Nazionale del Carabiniere Reale in congedo, delle associazioni dei bersaglieri, degli alpini, degli arditi di guerra, dei granatieri, dell’artiglieria, della guardia di finanza, degli autieri, dei marinai. Persino sopravvive e viene messa in risalto la Società parmense «Patria e Re» fra Veterani e Reduci delle Guerre per l’Unità d’Italia e Guerre Coloniali, fondata nel 1879, mentre è cessata alcuni anni prima la storica Società dei Reduci delle Patrie Battaglie di orientamento garibaldino (ma a Garibaldi e al garibaldinismo il regime dedicherà ampio tributo). E la preziosa Guida non menziona l’associazione del fante e dei volontari della Prima Guerra Mondiale, che pure esistono, e altre ancora.

Infine, nel progetto della costruzione di un “uomo nuovo” fascista, vi è anche la virtù bellica, guerriera, che tale uomo deve possedere. Come scriverà il «Corriere Emiliano» nel febbraio 1941, commentando la partenza di un gruppo di giovani volontari di guerra:

la vita, per chi è uomo […], per essere bella deve passare anche attraverso il combattimento. Non è uomo chi non ha mai combattuto, come non è veramente donna chi non è madre. I veri giovani vogliono combattere, perché soltanto quando si combatte ci si sente padroni della vita, dominatori del proprio destino, leoni e non pecore (15).


Di qui procede l’introduzione di una precoce formazione militare della gioventù, coi corsi premilitari dei giovani e giovanissimi, e lo stesso sport assume in diversi casi una funzione preparatoria ad attività militari. Quando le “guerre del Duce” cominceranno, a metà degli anni Trenta, il regime agevolerà e incoraggerà il fenomeno dei volontari di guerra come compiuto sviluppo dell’“uomo nuovo”. E a Parma i volontari furono 1.809 nella guerra d’Africa e 618 nella guerra di Spagna, di contro ai 496 volontari nella Prima Guerra Mondiale e non si hanno cifre su quanti si arruolarono volontari nella Seconda Guerra Mondiale (16). Tuttavia, nonostante la credenza, un tempo diffusa, secondo la quale la Seconda Guerra Mondiale fu dagli italiani meno sentita della prima e pertanto fu minore l’apporto del volontariato, probabilmente nel 1940-1943 si eguagliò, quantomeno, e forse si superò, il numero dei volontari della precedente guerra mondiale (17).

Dopo gli anni della stabilizzazione del fascismo (all’incirca dal 1926 al 1930), il consenso verso il regime va in crescendo sino all’apogeo della guerra d’Etiopia, che inizia nel 1935, e della reazione alle conseguenti sanzioni deliberate dalla Società delle Nazioni verso l’Italia. E se si va a vedere che cosa capita in provincia all’annuncio della guerra d’Etiopia, forse qualcuno, abituato a una rappresentazione fuorviante della storia di Parma, può stupirsi del consenso che l’impresa sembra avere anche fra i parmigiani e del consenso, forse ancor maggiore, fornito alla lotta contro le “inique sanzioni”.

Via via che ci si avvicina alla data d’inizio delle operazioni belliche (ottobre 1935), i gruppi dirigenti fascisti presentano in massa domanda di arruolamento volontario. Presentano domanda, al completo, il direttorio federale, gli ispettori di zona, il direttorio del fascio di Parma, i direttori di diversi fasci comunali, la direzione e la redazione del «Corriere Emiliano»; e inoltre i fiduciari dei gruppi rionali e numerosi segretari di fasci rurali, il comando federale dei fasci giovanili, un certo numero di podestà e vice-podestà e, infine, numerosi altri gerarchi sino al segretario federale. Così pure si arruolano il rettore magnifico, il segretario del GUF e plotoni di studenti universitari. Analogo atteggiamento hanno le associazioni combattentistiche: a parte le numerose domande di arruolamento individuale, chiedono di essere arruolati gli interi consigli direttivi dell’Associazione dei volontari della Prima Guerra Mondiale e del Nastro Azzurro, l’associazione dei decorati al valore, e grandi invalidi e mutilati di guerra presentano anch’essi la domanda.

Mentre la città comincia ad attrezzarsi, per la prima volta, con la protezione antiaerea e con distribuzione di maschere antigas, a difesa di un improbabile attacco etiopico, partono le grandi manifestazioni a favore dell’intervento. In particolare, è da segnalare l’“adunata oceanica” del 2 ottobre nella piazza principale della città che, a giudicare dalle foto, stipa di folla ogni centimetro del popolare luogo, con le campane a stormo suonate dalle torri civiche, dalle sedi dei fasci e dalle parrocchie, autorizzate a ciò dalla gerarchia ecclesiastica. In novembre arrivarono le sanzioni e cominciò la campagna dell’“oro per la patria”, e dell’argento e dei metalli, in particolare ferro e rame. Scorrendo i lunghi elenchi degli offerenti, che il «Corriere Emiliano» pubblicherà, quasi quotidianamente, per mesi e mesi sino a buona parte del 1937, con modesti strascichi sino al 1938, e consultando le segnalazioni del giornale sulle donazioni delle personalità più espressive o delle associazioni, a parte le ovvie donazioni dei gerarchi, si trova di tutto. Monsignor Mario Vianello, vescovo della diocesi di Fidenza, offrirà un anello episcopale e, poco dopo, monsignor Evasio Colli, vescovo della diocesi di Parma, elargirà una collana episcopale e una moneta d’oro; diversi sacerdoti a loro volta doneranno, come pure qualche circolo di Azione Cattolica. Ma non sarà da meno il rabbino, Enrico Della Pergola, che donerà la chiave d’argento massiccio del Tempio israelitico. Offrono oro o argento intellettuali e operai, nobili e borghesi, vecchi garibaldini e combattenti delle guerre coloniali precedenti; offrono i ricchi, come numerosi e importanti industriali e agricoltori, e i poveri, come gli anziani ospiti della casa di riposo “Mario Romanini” in Parma e del ricovero di mendicità di Fidenza, oltre che gli ospiti dell’asilo notturno e persino i carcerati della casa di pena. Scuole, anche cattoliche, società sportive e di mutuo soccorso, società corali, banche, librerie cattoliche, orfanotrofi , oltre alle strutture del PNF, non fanno mancare il loro apporto, mentre nei quartieri popolari i gruppi rionali fascisti, in particolare il gruppo rionale Corridoni, sotto la cui giurisdizione cade il già sovversivo quartiere dell’Oltretorrente, raccolgono i rottami dei metalli più poveri.

Fra gli offerenti si trovano inoltre presenze inaspettate di antifascisti: così offrono e più volte l’avvocato Aurelio Candian (che ebbe lo studio devastato dagli squadristi fascisti nelle giornate dell’agosto 1922), Virgilio Agnetti (già corrispondente dell’«Avanti!») e l’ex-onorevole del partito popolare, Felice Corini, che dona fra l’altro la sua medaglietta d’oro di deputato. Inoltre, la guerra d’Etiopia scuote anche l’antifascismo parmense emigrato all’estero negli anni Venti. Il caso clamoroso di Vittorio Picelli, fratello di Guido, che chiederà direttamente a Mussolini di rientrare in Italia per arruolarsi volontario in Africa Orientale e vedrà esaudito il suo desiderio, non è l’unico: un antifascista emigrato di minore rilevanza scriverà al «Corriere Emiliano» una lettera di sostegno all’impresa e Piero Illari, maestro, poeta futurista, ex segretario della federazione parmense del Partito Comunista d’Italia nel 1922, emigrato in Argentina nel 1924, chiederà in quell’anno la tessera del PNF al fascio di Mendoza, raccogliendo una rimarchevole somma di denaro fra gli emigrati italiani della provincia argentina in cui risiede per aiutare l’impresa bellica italiana.

La campagna culminerà con la consegna delle fedi nuziali nella giornata del 18 dicembre, poi ripetuta il 22 dicembre. Per l’occasione, l’elmo di Alessandro Farnese, duca di Parma e glorioso condottiero militare, sarà tolto dal sarcofago ubicato nella Chiesa della Steccata e sarà collocato nel sacrario dei caduti fascisti nel Palazzo della Rivoluzione: lì, il 18 dicembre, depositeranno le loro fedi d’oro, secondo il «Corriere Emiliano», 5.000 donne parmensi, ricevendone in cambio delle fedi in ferro, mentre altre 20.000 faranno altrettanto nei comuni rurali. Una studiosa tedesca, Petra Terhoeven, ha provato a stimare i risultati della campagna per la consegna delle fedi nella provincia: al 31 dicembre 1935, su 114.227 donatori potenziali (considerando tali gli individui coniugati o vedovi, e calcolando gli uomini un terzo, anziché la metà del totale) furono raccolte 41.113 fedi, il 36% dei potenziali donatori. Nella primavera del 1936 erano stati complessivamente raccolti 375 kg d’oro e 1.200 kg d’argento, rispettivamente 0,99 grammi e 3,18 grammi pro-capite degli abitanti della provincia, di contro a una media nazionale di 0,80 e 2,23 grammi e una media regionale emiliana di 0,87 e 3,41 grammi, come ci informa un prospetto dell’agosto 1937 (18).

Ma esiste un’opposizione al regime? Esiste cioè un antifascismo? Qui il discorso si fa complesso. Seguendo un’utile classificazione, che si deve a Emilio Gentile, possiamo distinguere l’antifascismo in quattro categorie: 1) un antifascismo «propriamente politico e militante», che proviene soprattutto dai partiti antifascisti clandestini e che è attivo, cioè si manifesta con atti, e i cui aspetti parmensi esamineremo fra poco; 2) un antifascismo «culturale», tipico di alcuni intellettuali. L’esempio maggiore in questo senso fu Benedetto Croce, con il suo riaffermare il valore della «religione della libertà». Ma tracce di tale atteggiamento si trovano anche in intellettuali parmensi che fanno riferimento a Croce, soprattutto come critico letterario: fra altri, due antifascisti, Renzo Pezzani e Lanfranco Fava, gli inviano lettere, puntualmente registrate dalla polizia politica, sottoponendogli i loro lavori poetici, e già il fatto di rivolgersi a Croce ha un significato politico; 3) una «opposizione silente» che, pur non potendosi considerare un antifascismo in senso stretto, «anche quando aveva origine e motivazione politica, non divenne volontà di lotta, ma fu una resistenza passiva ai comandamenti e alla invadenza del partito totalitario», com’è il caso di diversi intellettuali o uomini politici antifascisti parmensi, da Ferdinando Bernini a Biagio Riguzzi, entrambi socialisti; 4) un antifascismo «virtuale» che, durante gli anni Trenta, cominciò a formarsi nelle associazioni del laicato cattolico (l’Azione Cattolica e le sue varie articolazioni), «animato da motivazioni principalmente religiose, che però non divenne volontà di lotta politica se non negli anni della Seconda Guerra Mondiale», e che anche a Parma trova riscontro
(19).

Per ciò che riguarda l’antifascismo militante, che durante il ventennio coinvolse piccole minoranze, si può constatare che a Parma fu per gran parte rappresentato dai comunisti. Secondo i risultati di uno studio analitico, su 161 parmensi sottoposti a provvedimento di ammonizione il 58% era composto da comunisti, il 28% da persone genericamente definite “antifasciste”, il 6% da socialisti; repubblicani, sindacalisti rivoluzionari, anarchici, fascisti dissidenti fornivano ciascuno l’1% degli ammoniti; un 4% era costituito da apolitici e non attribuiti. Fra i confinati, il 67% era comunista, il 17% “antifascista”, il 4% repubblicano, il 3% socialista, il 3% anarchico, il 2% appartenente al sindacalismo rivoluzionario e l’1% ciascuno da attribuirsi a popolari, fascisti dissidenti e apolitici, con un 1% non attribuito. Nei processi del Tribunale Speciale, il 90% dei deferiti e il 100% dei condannati era comunista
(20).

E tuttavia tale antifascismo attivo, pur nell’esiguità delle cifre, già cala nel quinquennio 1931-1935 rispetto al precedente quinquennio (passando da una media di 30 persone all’anno colpite dalle commissioni per il confino o dal Tribunale Speciale a una media di 17) e diminuisce bruscamente con la seconda metà degli anni Trenta, fino a raggiungere una media di 5 fra il 1936 e il 1940
(21).

Si può, naturalmente, affermare, ed è stato a lungo ripetuto, che l’antifascismo attivo è semplicemente il segnale di un movimento antifascista molto più vasto. In fin dei conti, chi è disponibile a pagare il proprio dissenso con la galera o con il confino non può che essere una minoranza ridotta, mentre il novero di coloro che non sono disponibili a pagare questi elevati prezzi, pur essendo antifascisti, può essere molto più consistente. E, tuttavia, potremmo definire tale inferenza come “l’argomento della punta dell’iceberg”, per cui ciò che sta sotto l’acqua è molto più grande di ciò che emerge e si vede. Il fatto è che, nel caso dell’iceberg, conoscendo il volume di ciò che emerge, gli scienziati sono in grado di determinare con notevole esattezza ciò che è sommerso, senza bisogno di misurarlo di persona, grazie al principio di Archimede. Nel caso dell’antifascismo “sommerso”, invece, non siamo in grado di dare una valutazione quantitativa, nemmeno in maniera grossolana, né sinora si sono rintracciati metodi o modi per individuarne le dimensioni. Fino a quando non troveremo gli strumenti quantomeno per stimare il dissenso con una qualche precisione, il problema resterà piuttosto enigmatico.

E in qualche modo si potrebbe sostenere che resta un enigma anche la misura del consenso: cioè la grandezza e la dimensione del consenso, giacché la tesi che non vi fosse un consistente consenso nei confronti del regime e che esso si reggesse esclusivamente o soprattutto grazie a un vasto apparato coercitivo e repressivo è ormai sostenuta da pochi studiosi.

Come ha scritto uno studioso tedesco, Hans Mommsen, il fascismo si regge nella «dialettica fra consenso popolare e cooperazione forzosa»; forse, ciò costituisce la sostanza del regime fascista e, aggiungiamo, di tutti i totalitarismi. L’apparato coercitivo e repressivo, che fa perno su una parte segreta della polizia politica (contrassegnata con la sibillina sigla di OVRA e destinata innanzitutto all’annientamento dell’antifascismo), non è comunque da sottovalutarsi, giacché tale apparato, con la sua larga schiera d’informatori e di fiduciari stipendiati e anonimi per il pubblico, non infl uisce soltanto in maniera diretta sul Paese, sorvegliando e arrestando gli oppositori, ma soprattutto in maniera indiretta. Com’è stato scritto, «questa polizia politica viene a poco a poco sentita dalla popolazione come onnipotente e onnipresente. L’ignoto ingigantisce la paura che insieme alla sensazione di sentirsi spiati da ombre invisibili, agisce come moltiplicatore delle autocensure preventive e paralizza ogni velleità di trasgressione »
(22), ottenendo anche in tal modo comportamenti conformistici. E Parma, dal 1928 compresa nella seconda zona dell’OVRA, che comprendeva Emilia-Romagna, Toscana e Marche, all’incirca dal 1933 sarà sede di una sottozona, con giurisdizione dapprima su Piacenza e Reggio Emilia e poi soltanto su Reggio Emilia; come responsabili, alla sottozona di Parma furono preposti, in ordine cronologico, i funzionari Ubaldo Camerlengo, Raffaele Roberti, Alfredo Ingrassia e infine Ottavio Molinari (23).

Per misurare il consenso e il dissenso sono poco significativi, per molteplici e in parte ovvie ragioni, i plebisciti indetti dal regime, in cui il consenso appare altissimo: il primo del 1929, in cui i sì al regime raggiunsero il 95,9%, e il secondo e ultimo del 1934, con il 99,4% dei sì. Nel 1929, Parma marca un qualche dissenso in più rispetto alla media nazionale: gli astenuti costituiscono il 10,4% su scala nazionale e l’11,3% su scala provinciale; ancora più espressivi, i voti contrari sono il 4,1% su scala provinciale, rispetto all’1,6% nazionale. Invece, nel 1934, vi fu qualche dissenso in meno rispetto alla media nazionale: sono, infatti, insignificanti le differenze fra le percentuali degli astenuti su scala nazionale e locale e allo 0,15% nazionale dei voti contrari corrisponde lo 0,06% provinciale (24).

Come capita non infrequentemente nella storia, gli anni dell’apogeo del regime coincidono con i primi segnali dell’inizio del declino. La partecipazione del fascismo alla guerra di Spagna, innanzitutto, non raccoglie il largo consenso della guerra d’Etiopia: le stesse cifre dei volontari sono espressive in tal senso.Inoltre, in quel periodo, si ha una certa ripresa di manifestazioni di antifascismo, sia con l’aumento di coloro «che pronunciavano “frasi antinazionali”, “disfattiste” o che offendevano “S.E. il Capo del Governo”» (fenomeno già iniziato in tono minore con la guerra d’Etiopia
(25), sia con l’ascolto clandestino delle radio della Spagna repubblicana. Infine, nella seconda metà degli anni Trenta prende corpo un antifascismo di tipo nuovo, che proviene dalle fila stesse del fascismo, composto perlopiù da giovani cresciuti nel regime. Passati dal fervore anticonformista alla semplice dissidenza e infine all’antifascismo, gruppi piuttosto ristretti di giovani parmensi (alcuni genericamente antifascisti per tradizione familiare, per rapporti amicali o per una formazione scolastica dovuta a insegnanti antifascisti) avevano peraltro trovato altre vie per esprimersi, già dopo la metà degli anni Trenta, al di fuori dei partiti antifascisti tradizionali, delle riviste della fronda o delle case editrici eterodosse. Così diversi di essi parteciparono alle iniziative promosse da Ruggero Zangrandi (dal movimento giovanile «universal-fascista» alla fondazione del Partito Socialista Rivoluzionario), fondando una sezione parmense del “Centro Giovanile per il Fascismo Universale” (26); oppure portarono le critiche che erano venute maturando all’interno dei Littoriali della Cultura. E il fatto che si tratti di gruppi piuttosto ristretti non ne diminuisce l’importanza, piuttosto significativa dal punto di vista storico.

Insomma, alla fine degli anni Trenta, l’ancor solido edificio fascista comincia a manifestare le prime crepe: piccole o minuscole, ma pur sempre crepe. E, con l’ingresso dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale il 10 giugno 1940, nove mesi dopo l’invasione hitleriana della Polonia, le crepe si allargano a fenditure, a spaccature e infine a voragini e baratri.

Sebbene la dichiarazione di guerra fosse accolta in provincia senza contestazioni, dopo le sconfitte militari accumulate dalle forze armate italiane nei vari teatri di guerra e i gravi disagi che comporta l’economia di guerra, in realtà, con gli anni fra il 1940 e il 1943, si consumò una generale e consistente perdita di consenso del regime nella società italiana, e crebbe una vasta area di insofferenza e di dissenso fra la popolazione, che talvolta si manifestò anche nelle forme dell’opposizione aperta. Contemporaneamente si era formata e via via amplificata la divisione e la protesta interna al PNF, con la crescita di un’opposizione intestina che puntava innanzitutto a raggiungere la pace nel più breve tempo possibile.

Cominciarono, nel frattempo, a rinascere i partiti antifascisti. Fra di essi il più organizzato e attivo era il partito comunista, che col 1941-1942 era andato ricostituendosi, allargando le proprie fila
(27). Se si può constatare che, dall’inizio degli anni Trenta, il movimento comunista locale (pur mantenendo una minuscola struttura organizzativa) era ormai poco più che un piccolo gruppo, strettamente controllato e infiltrato dalla polizia, con l’inizio della guerra esso trovò più larghi margini di azione e di espansione. Fra il 1940 e il 1943 si moltiplicarono (sia pure in ristretti limiti quantitativi) gli atti che manifestavano la presenza dei comunisti: le scritte anonime sui muri, la diffusione di volantini clandestini, i canti di “Bandiera rossa”, la partecipazione e l’intervento in alcune proteste collettive della popolazione, come la più importante di tali manifestazioni, la manifestazione delle donne dei quartieri popolari in città contro la diminuzione della razione del pane, nell’ottobre 1941. Persone che prima dell’avvento del fascismo erano state comuniste o di estrema sinistra e che durante il fascismo erano cadute in sonno (per usare il linguaggio massonico), si riaccostavano e riprendevano un’attività politica, sia pure cauta e intermittente od occasionale. Contemporaneamente, il partito comunista cominciò ad assorbire esponenti di altre tradizioni politiche della sinistra, in particolare socialisti (i casi esemplari di Giacomo Ferrari e Primo Savani non furono gli unici) e gruppi ristretti di giovani, perlopiù provenienti dalle organizzazioni giovanili fasciste. E tuttavia ancora verso il novembre-dicembre del 1943 un ispettore del partito comunista forniva questa valutazione: «Numericamente la fed[erazione] di Parma è poco numerosa. Conta circa 300 iscritti dei quali la più gran parte in città» (28). Ed è da considerare che tale sommaria rilevazione statistica mostra l’esiguità delle forze organizzate dal partito comunista ancora alla fine dell’anno in cui crollò il regime: è probabile dunque che, fra il 1940 e il 25 luglio 1943, i comunisti fossero ancor meno numerosi.

Su scala nazionale il 1942 fu l’anno della fondazione di nuovi partiti o della ricostituzione di storici partiti. Nel giugno-luglio si era formato il partito d’azione; nel settembre il partito socialista (e nel gennaio 1943 il Movimento di unità proletaria, che si fonderà nell’agosto con lo PSI, dando vita allo PSIUP); nell’ottobre la democrazia cristiana. A parte i comunisti, per i quali disponiamo, per gli anni di guerra, di una schematica ricostruzione memorialistica e di numerosi documenti di polizia, non è facile comprendere, in realtà, in che cosa consistessero, nella provincia di Parma, questi partiti ancora in via di formazione: è difficile capire a chi possiamo attribuirne la nascita e come si siano sviluppati, quale consistenza avessero e come fossero composti i gruppi dirigenti.

Per ciò che riguarda i cattolici, si può sostenere sia che essi traessero ispirazione dal vecchio popolarismo pre-fascista incarnato in primis da Giuseppe Micheli e anche da Felice Corini, sia che facessero leva su figure giovani come Olimpio Febbroni e Renzo Ildebrando Bocchi, che, in seguito alle guerre del fascismo, avevano maturato posizioni antifasciste, provenendo soprattutto dal movimento degli universitari o dei laureati cattolici e più in generale dall’Azione Cattolica. Fu poi significativa la presenza di alcuni esponenti del clero, come don Giuseppe Cavalli. Tuttavia il movimento politico antifascista dei cattolici si muoveva all’interno di una forza ben più rilevante rappresentata dall’influente Azione Cattolica, serbatoio di energie umane e consenso. Analogamente a ciò che avveniva su scala nazionale, inoltre, sembra ormai attestato che anche nella Chiesa parmense con lo scoppio della guerra (e in particolare dal 1942) iniziò un processo di distacco dal fascismo.

Per quanto riguarda i socialisti parmensi, si può affermare che la quasi totalità fosse costituita da socialisti riformisti, provenienti dalle fila del Partito Socialista Unitario, come Ferdinando Bernini e Biagio Riguzzi. Sul partito d’azione, sappiamo che il compito di costruirlo nella provincia di Parma era stato affidato ad Aristide Foà, già responsabile dell’antifascista Unione Goliardica della Libertà nel 1924-1925, e che in tale compito egli ebbe un ausilio nell’avvocato Giacomo Miazzi. I repubblicani si raccoglievano soprattutto intorno alla figura di Bottai («fanatico mazziniano », come lo definiva un questore) e anche di Umberto Pagani. È da segnalare il fatto che, insieme ai comunisti, i repubblicani furono l’unico gruppo di opposizione, per quanto esiguo, che le fonti di polizia segnalassero come attivo almeno sino al 1941. Per individuare tracce dei liberali, infine, occorrerà attendere la caduta del regime. Sembra, comunque, che il movimento liberale risorgesse subito dopo il 25 luglio 1943, avendo come promotori Tito Di Stefano, Arrigo Dedali, Luigi Franco, Aldo Borlenghi, Pietro Bianchi, Ernesto Avanzini
(29).

Con la parziale eccezione del partito comunista, pertanto, si può affermare che, alla vigilia del 25 luglio e anche durante i 45 giorni badogliani, i partiti politici fossero ancora in uno stato nascente e magmatico, un fenomeno ancora scarsamente rilevante, pur crescendo in forze numeriche e in autorevolezza: gruppi circoscritti di personalità, perlopiù già attive nella vita politica provinciale prima del fascismo, mossi da una comune visione ideale e politica, senza che a ciò corrispondesse una struttura organizzativa definita.

La sera del 25 luglio 1943, con l’annuncio alla radio che Vittorio Emanuele III aveva accettato le dimissioni di Benito Mussolini dalla carica di capo del governo e aveva nominato nella stessa carica il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, incaricato di un «governo militare del Paese, con pieni poteri», iniziarono le manifestazioni di gioia dei parmensi. Le dimostrazioni furono contraddistinte da una larga presenza di giovani e di donne. Secondo il prefetto, in esse si inserirono, il 25 luglio, «elementi sovversivi, che […] iniziarono in un primo tempo a inframmezzare le grida dei dimostranti col canto di “Bandiera Rossa” e il 26 luglio si formarono diversi cortei che «percorsero le vie della città al canto anche di inni sovversivi e con esibizione di qualche drappo rosso»
(30). Le manifestazioni durarono sino alla sera del 26 luglio, nonostante che dalle 14.00 del giorno stesso tutto il potere civile e militare fosse concentrato nelle mani del comandante del locale presidio militare, il colonnello Francesco Sebastiani. L’esercito assumeva pertanto i pieni poteri, vietando tassativamente gli assembramenti di più di tre persone e le riunioni, a pena di «disperderli inesorabilmente» con l’ausilio della forza pubblica, imponendo il coprifuoco «dal tramonto all’alba, con divieto di circolazione dei civili» e altre severe misure di pubblica sicurezza, con la minaccia del Tribunale Militare per i trasgressori. Per effetto di tali diposizioni, in scontri con la forza pubblica si ebbe il ferimento di 14 persone fra i dimostranti. Durante le dimostrazioni in città, fotografie di Mussolini, asportate da vari luoghi di Parma, furono fatte a pezzi con accompagnamento di insulti e bruciate; qualche squadrista fu aggredito e ferito e alcuni fascisti che portavano ancora il distintivo del PNF furono inseguiti e costretti a toglierlo; due gruppi rionali del PNF e il Dopolavoro furono devastati, il mobilio distrutto e le carte incendiate; vi furono tentativi, non riusciti per l’intervento della forza pubblica, di penetrare nelle sedi della Milizia, del GUF e della federazione fascista e di introdursi nelle carceri allo scopo di liberare i detenuti politici (31); furono assaltati gli edifici delle organizzazioni sindacali, dell’associazione locale dei volontari di guerra e della «Gazzetta di Parma»; sul monumento a Garibaldi, nella piazza principale della città, dove erano state poste una bandiera tricolore e una fotografia di Badoglio, fu più tardi trovata una coccarda rossa.

Le stesse cose avvenivano in provincia: le devastazioni dei fasci nei comuni rurali, la distruzione delle effigi e dei ritratti di Mussolini, le bandiere e i cimeli dei fasci bruciati, talvolta nella piazza principale del paese, come a Sissa e Fornovo.

Due fatti, inoltre, colpiscono nei giorni successivi al 25 luglio. Innanzitutto l’assenza di rilevabili reazioni fasciste in quei giorni; pressoché nessuno, fra l’enorme massa di iscritti al Partito Nazionale Fascista, si mosse per reagire alla caduta del regime e non si registra nemmeno un modesto moto di protesta.
In secondo luogo meraviglia che alle manifestazioni di esultanza e alle distruzioni partecipassero anche numerosi fascisti. Le fonti fasciste interpretarono questo fatto come testimonianza di iscrizioni al partito fatte, a suo tempo, per opportunismo e calcolo di convenienza, e constatarono la prontezza con cui vari iscritti abbandonarono il PNF stesso e seguirono la nuova direzione del vento. Nessuna di esse si interrogò sulla possibilità che diversi di questi esponenti, pur avendo creduto un tempo al regime, avessero in realtà maturato via via, in particolare con la guerra, un distacco e una rottura col fascismo stesso, che il 25 luglio rivelò compiutamente.

Gli ultimi giorni di luglio furono tranquilli: la ventata sembrava essersi arrestata. Ma cominciarono ad apparire palesemente sulla scena, per la prima volta da molti anni, i partiti antifascisti e si manifestò un organismo di collegamento fra questi partiti. Il 28 luglio la «Gazzetta di Parma» annunciava al pubblico l’«intesa» di «tutti i partiti vitali, dal cattolico al comunista», che erano nati o rinati dalla disgregazione del fascismo, «intesa» che intendeva assumere «la direzione del movimento di restaurazione e di rinascita »
(32) e precisava che il giornale, da quel momento, era retto da una commissione composta da un rappresentante del locale Comando di Presidio e da «delegati del Partito Cristiano Sociale, dello PSI, del PRI, del PCI e dell’Italia Libera» (33). Pochi giorni dopo, il 6 agosto, il questore di Parma Francesco Spanò inviò una dettagliata informazione al capo della polizia:

si è costituito un comitato di collegamento di vari partiti il quale chiede: 1) che i cittadini indicati dal comitato ricoprano tutte le cariche cittadine e provinciali; 2) che il quotidiano la «Gazzetta di Parma» sia diretto da persone di fiducia del Comitato e che faccia propaganda a favore della pace; 3) che cessi immediatamente la guerra. Delegati dei vari partiti a formare tale comitato sono: il prof. Ferdinando Bernini, socialista ufficiale; l’avv. Aristide Foà, ebreo, dell’Italia Libera; l’ex Ministro dr. Giuseppe Micheli del partito popolare; l’avv. Primo Savani, comunista (34).


Dopo quasi due decenni i partiti politici cominciavano a far risentire la loro voce quasi apertamente, in una condizione di semi-clandestinità: una voce ancora fl ebile, ma non per questo meno spressiva e ascoltata.

Si passava così al torrido mese di agosto, dopo l’intenso uragano demolitore della fine di luglio, fra confusione, timori, speranze e incertezze. Per il momento l’Italia continuava la guerra a fianco della Germania. Gli anglo-americani, sbarcati in Sicilia fra il 9 e il 10 luglio, avevano ormai conquistato l’isola. Le divisioni tedesche cominciarono ad affl uire dal Brennero per rinforzare i reparti della Wehrmacht già presenti, preparandosi a prendere il potere nel territorio italiano, e iniziarono ad affacciarsi anche nel Parmense: il 27 luglio, un reparto tedesco iniziò a occupare il Palazzo Ducale di Colorno e una parte dell’Aranciaia, una dépendance del palazzo, per costituire un magazzino di rifornimenti alle unità in arrivo
(35).

In agosto le iniziative governative smantellarono lentamente le strutture del regime (il PNF, la MVSN e le altre organizzazioni fasciste); sul piano locale la spinta al mutamento delle più importanti cariche nei comuni e negli enti pubblici procedette a sua volta a rilento. Attraverso la nomina di commissari prefettizi, nei 45 giorni badogliani, fu commissariato complessivamente all’incirca un terzo dei comuni, per la più parte da funzionari della prefettura e dell’intendenza di finanza oppure da ufficiali di carriera, sostituendo i podestà esistenti; alla fine di agosto arrivò infine il nuovo prefetto, Giuseppe Zingale. La cautela fu il tratto caratteristico del mese di agosto, non solo nei cambiamenti del personale politico; anche la «Gazzetta di Parma» rimase molto discreta e prudente e così pure si mantenne prudente la chiesa cattolica. Fra l’inizio di agosto e l’8 settembre, la situazione politica in provincia rimase pressoché bloccata.

Alla guerra e alla difficile situazione economicosociale, si aggiunse dopo il 25 luglio l’incubo degli allarmi, che cominciarono a diventare più frequenti con lo sbarco degli Alleati in Sicilia e che si intensificarono ulteriormente durante i 45 giorni, cominciando le incursioni aeree su alcuni paesi della provincia. E si aggiunse l’inquietante presenza delle truppe tedesche: dalla fine di luglio ai primi di settembre raggiunsero all’incirca le 12.500 unità e, pur essendo ancora formalmente alleate dell’Italia, cominciarono a mostrare modi, tratti e comportamenti da forze di occupazione di un Paese nemico, come segnalato da una serie di incidenti con la popolazione.

All’annuncio dell’armistizio concluso dall’Italia con gli anglo-americani, la sera dell’8 settembre, di nuovo vi furono manifestazioni popolari che si diressero verso il centro della città e di nuovo cercarono anche di liberare dalle carceri di San Francesco i detenuti politici e i prigionieri di guerra, senza riuscirci, mentre in piazza Garibaldi alcuni comunisti tennero un breve comizio, parlando a nome del Fronte Nazionale antifascista, invitando i cittadini ad armarsi e a combattere i tedeschi. Nelle prime ore della notte, il Fronte Nazionale chiese al generale Giovanni Moramarco, nuovo comandante del presidio militare italiano, di fornire armi ai cittadini per organizzare, insieme all’esercito, la difesa della città dai tedeschi e tentativi analoghi furono esperiti da esponenti comunisti, ma la consegna delle armi fu rifiutata.

Entro il 9 settembre, i tedeschi occuparono l’intera provincia, con l’eccezione della zona di Salsomaggiore, che occuperanno nei giorni successivi
(36), senza che i reparti dell’esercito italiano frapponessero un’azione generale di contrasto o di difesa, ed è da sottolineare il fatto che, apparentemente, in provincia il rapporto numerico fra truppe italiane e tedesche non era squilibrato: di contro ai circa 12.500 militari tedeschi, è stato stimato che vi fossero circa 13.000 soldati italiani. Le forze italiane erano però costituite perlopiù da «unità non operative, cioè di addestramento, di difesa territoriale ed enti vari» (37)Al contrario, le forze tedesche disponevano soprattutto di reparti ben armati ed equipaggiati, addestrati ed esperti nel combattimento. Il 9 settembre, al pari di quanto stava avvenendo quasi ovunque sul territorio italiano e negli scacchieri extrametropolitani ove le forze militari italiane erano impegnate, furono pochi e circoscritti gli episodi di resistenza da parte di unità dell’esercito italiano, fra i quali si segnala soprattutto la difesa della Scuola di Applicazione di Fanteria.

In conclusione, si può dire che col 25 luglio il collasso del regime fu pressoché totale nella provincia di Parma; in secondo luogo, che le forze antifasciste, pur in via di costituzione e in ascesa, erano ancora nel complesso, a vari gradi, fragili e minoritarie, scarsamente in grado di incidere sostanzialmente nella situazione, e soltanto i comunisti si incamminarono sulla via della lotta armata (il questore aveva già rilevato in agosto: «Giungono voci non ancora confermate di riorganizzazione del partito comunista, di ricerca di armi e di fianziamento di denaro»
(38); in terzo luogo, che tutti gli attori si muovevano nell’incertezza e in modo cauto, per la complessa situazione italiana e nell’attesa di sviluppi che molti intuivano e temevano o speravano; in quarto luogo, che soltanto i tedeschi avevano da tempo chiari gli obiettivi e si predisponevano con rapidità ed efficacia a raggiungerli; in quinto luogo, che la gran massa della popolazione non sembrava implicata attivamente negli avvenimenti; infine che nei 45 giorni badogliani già si cominciavano a intravedere i binari sui quali si sarebbe incamminata la storia italiana nei successivi 20 mesi.

Al di là dei festeggiamenti e delle manifestazioni dell’8 settembre («giubilo velato di mestizia», come scrisse la cronaca dei salesiani parmensi
(39) ), la guerra continuava il suo corso fra tedeschi (che di lì a poco ebbero il limitato apporto militare del risorto fascismo della Repubblica Sociale Italiana) e angloamericani, una volta scomparso come protagonista l’esercito italiano, con il crollo delle strutture militari nazionali avvenuto l’8 settembre.

NOTE
(1) L’Opera Nazionale Balilla (ONB) nacque nel 1926 come ente statale, raccogliendo le preesistenti organizzazioni giovanili fasciste, che avevano assunto il soprannome del ragazzo che nel 1746 a Genova iniziò una rivolta popolare antiaustriaca. L’Opera fu la più importante rganizzazione fascista per l’educazione politica e militare dell’infanzia. Comprendeva all’inizio due settori esclusivamente maschili: i Balilla propriamente detti, cioè i ragazzi fra gli otto e i quattordici anni, e gli Avanguardisti, i ragazzi fra i quattordici e i diciotto anni. Dal 1929 organizzò anche la gioventù femminile con le Piccole Italiane e le Giovani Italiane, con una suddivisione interna per età identica a quella dei maschi. Nel 1933 si allargò ai bambini fra i sei e gli otto anni: i Figli e le Figlie della Lupa. Nel 1937 le organizzazioni giovanili fasciste furono raccolte in una nuova istituzione, la Gioventù Italiana del Littorio (GIL). L’Opera Nazionale Dopolavoro (OND), istituita con decreto nel 1925, ma sorta nel 1923 come articolazione del sindacato fascista, era l’istituzione creata dal regime per organizzare il tempo libero dei lavoratori, promuovendo una vasta gamma di attività ricreative, dalle bocciofile alle feste e alle filo-drammatiche, dal canto corale alle bande musicali e ai corsi culturali, dallo sport al cinema e alla radio, dal teatro al turismo.

(2) A quanto ammontano gli iscritti al Partito Fascista, «Corriere Emiliano», 17 ottobre 1926: l’articolo riprende le cifre dal «Foglio d’ordini» del PNF. Le cifre che forniamo trascurano i sindacati e la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN), giacché il fenomeno della doppia tessera porterebbe a un rigonfiamento artificiale delle forze fasciste; segnaliamo che anche per il Dopolavoro esiste analogo problema, sia pure in maniera ridotta.

(3) Si veda il quadro statistico dell’Ufficio disciplina del PNF del 16 ottobre 1940 in Archivio Centrale dello Stato (d’ora in avanti ACS), PNF, Situazione politica ed economica province. 1923-1943, b. 12.

(4) I settori costituivano un sottoinsieme dei gruppi rionali in città e i nuclei raccoglievano una parte del settore oppure una o più frazioni di un comune.

(5) Parma, Fresching, 1926.

(6) Le cifre provengono dal quadro statistico dell’Ufficio disciplina del PNF del 16 ottobre 1940, cit.

(7) Ricaviamo tale cifra approssimativa dalla somma dei 3.570 antifascisti sottoposti a schedature nel 1935 (cfr. M. PALAZZINO, Nel buio. L’antifascismo parmense e lo stato di polizia, in Nella rete del regime. Gli antifascisti parmensi nelle carte di polizia (1922-1943), a cura di M. Giuffredi, Roma, Carocci, 2004, p. 16) alle 247 persone ritenute ebree nel 1938 (cfr. La popolazione ebraica nei dipartimenti e nelle province, «Corriere Emiliano», 12 ottobre 1938). Gli anni del Littorio. Il regime fascista a Parma: 1926-1943 25

(8) Un territorio di Ha. 26.077 ed una popolazione di circa 125.000 anime, «Gazzetta di Parma», 26 gennaio 1943.

(9) Un bilancio dettagliato e complessivo, ma non esaustivo, delle opere pubbliche del regime, dal 1927 al 1941, si trova in «Gazzetta di Parma», 28 ottobre 1942.

(10) Sull’attività editoriale di Fresching, cfr. C. ANTINORI E M.C. TESTA, Mario Fresching: principe dei tipografi parmensi nella prima metà del secolo XX, Parma, La Pilotta, 1994.

(11) I Consiglieri Nazionali nella Camera dei Fasci e delle Corporazioni, «Corriere Emiliano», 10 marzo 1939. Il giornale considerò anche Amilcare De Ambris come parmense, per aver diretto la Camera del Lavoro sindacalista nel primo dopoguerra.

(12) La prima cifra in Guida commerciale di Parma e Provincia. Anno XV. 1929, Parma, Fresching, 1929 (II edizione), p. 29; la seconda cifra nella statistica dell’Ufficio disciplina del PNF, cit.

(13) I dati definitivi nel telegramma del prefetto di Parma del 1° giugno 1931 in ACS, Ministero dell’Interno (d’ora in avanti MI), Direzione Generale di Pubblica Sicurezza (d’ora in avanti DGPS),
Direzione Affari Generali e Riservati (d’ora in avanti DAGR), Categorie Permanenti (d’ora in avanti C.P.), Associazioni, b. 142.

(14) Nostra elaborazione dei due prospetti statistici compilati dalle compagnie dei Reali Carabinieri di Parma e di Fidenza, in data rispettivamente del 31 e 28 luglio 1931 in ACS, MI, DGPS, DAGR, C.P., Associazioni, b. 142.

(15) I nostri giovani, «Corriere Emiliano», 28 febbraio 1941.

(16) Le cifre dei volontari sono prese da Contributo del popolo parmense, «La Fiamma», 8 ottobre 1941, e attendono, naturalmente, un vaglio critico. Il numero dei volontari della Prima Guerra Mondiale fornito dal giornale è di non poco superiore al censimento di G. SITTI, Caduti e decorati parmigiani nella guerra di liberazione 1915-1918, Parma, Fresching, 1919, pp. 383 e sgg., che ne menziona 211. L’elenco di Sitti è certamente lacunoso e, peraltro, anche il numero fornito dal periodico fascista sembra eccessivo.

(17) Una cifra di 250 volontari, partiti al gennaio 1941, è in Partenza di un Battaglione di Volontari del G.U.F., «Corriere Emiliano», 12 gennaio 1941.

(18) P. TERHOEVEN, Oro alla patria. Donne, guerra e propaganda nella giornata della Fede fascista, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 311, 314, 316 e 318.

(19) La classificazione delle tipologie dell’antifascismo in E. GENTILE, Fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Firenze, Le Monnier, 2000, pp. 244-255.

(20) M. PALAZZINO, Nel buio. L’antifascismo parmense e lo stato di polizia cit., pp. 21-23.

(21) Le medie sono costituite da una nostra elaborazione delle notizie su parmensi contenute in Ministero della Difesa, Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Decisioni emesse, Roma, Ufficio Storico SME, 1981-1999, in più volumi, e in A. DAL PONT, S. CAROLINI, L’Italia al confino. Le ordinazioni di assegnazione al confino emesse dalle commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, Milano, La Pietra, 1983. Per vari motivi, le nostre medie sovrastimano leggermente il numero dei colpiti.

(22) S. COLARIZI, L’opinione degli italiani sotto il regime. 1929-1943, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 9.

(23) Ricaviamo tali notizie da M. CANALI, Le spie del regime, Bologna, il Mulino, 2004, pp. 349-350.

(24) I risultati in «Corriere Emiliano», 26 marzo 1929 e «Corriere Emiliano», 27 marzo 1934.

(25) M. PALAZZINO, Nel buio. L’antifascismo parmense e lo stato di polizia cit., p. 20.

(26) Informazioni su Parma in R. ZANGRANDI, Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Milano, Feltrinelli, 19645, p. 124, nonché la “Relazione su Parma” di Carlo Andreoni, ivi, pp. 472-476.

(27) Notizie e informazioni sulla ricostituzione del Partito Comunista d’Italia nei primi anni di guerra in D. GORRERI, Parma ’43. Un popolo in armi per conquistarsi la libertà, Parma, STEP, 1975, p. 134 e sgg.: Gorreri fu il responsabile della federazione comunista sino al marzo 1943 e, poi, dopo il 25 luglio.

(28) Materiali per una storia della Federazione Comunista di Parma nella guerra di liberazione nazionale. Rapporti degli ispettori e degli istruttori, relazioni della Federazione, verbali del Comitato Federale, a cura di F. Sicuri, Parma, STEP, 1979, p. 23: il rapporto era di Giulio (Renato Giachetti).

(29) E. CAMURANI, Il P.L.I. dal I al XIV Congresso Nazionale, Roma, P.L.I., 1974, p. 667.

(30) ACS, DGPS, DAGR, CP, A5G, Seconda Guerra Mondiale, b. 144, f. “Scioglimento del PNF”.

(31) ACS, DGPS, DAGR, CP, A5G, Seconda Guerra Mondiale, b. 144, f. “Scioglimento del PNF”.

(32) Rinascita, «Gazzetta di Parma», 28 luglio 1943.

(33) «Gazzetta di Parma», 28 luglio 1943, trafiletto senza titolo.

(34) ACS, DGPS, DAGR, Categorie annuali (d’ora in avanti CA), 1943, b. 77. Secondo varie testimonianze, contatti unitari fra i vari partiti antifascisti si erano realizzati già fra il 1942 e il 1943, ma soltanto il 26 luglio, nel primo incontro fra i partiti antifascisti, tenutosi nello studio dell’avvocato Paolo Venturini, «i rappresentanti dei partiti stabilirono di costituirsi in comitato d’azione permanente » (D. GORRERI, Parma ’43… cit., p. 177). Dalla fine di agosto il comitato d’azione antifascista assunse la denominazione di Fronte Nazionale antifascista.

(35) Ricaviamo la notizia da M. ZANNONI, Parma 1943. 8 settembre, Parma, PPS, 1997, p. 97: allo studio di Zannoni rinviamo anche per le stime, successivamente menzionate, delle forze militari tedesche (p. 102) e italiane (p. 64).

(36) Ricostruzione dell’occupazione tedesca in M. ZANNONI, Parma 1943. 8 settembre cit., pp. 129-166.

(37) M. ZANNONI, Parma 1943. 8 settembre cit., p. 61.

(38) ACS, DGPS, DAGR, CA, 1943, b. 77, relazione di Spanò del 6 agosto 1943.

(39) La cronaca è riportata in P. BONARDI, La Chiesa di Parma e la guerra. 1940-1945, Parma, Tip. Benedettina, 1987, p.

 
 
   Portale dedicato alla Storia di Parma e a Parma nella Storia, a cura dell'Istituzione delle Biblioteche di Parma
Privacy
Site by e-Project srl